La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n° 29541 del 23 ottobre 2020, si è pronunciata in materia di rapporti tra il reato di estorsione ed il reato di esercizio arbitrarie delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, individuandone l’elemento distintivo.

La questione di diritto sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite della Suprema Corte è se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento oggettivo, in particolare con riferimento al livello di gravità della violenza o della minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in tale seconda ipotesi, come debba essere accertato tale elemento.

I Giudici della Corte ritengono che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento psicologico. Nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria (ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale), ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.

Ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume, pertanto, decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli.

Quanto alla verifica dell’elemento psicologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello del reato di estorsione, essi vanno accertati secondo le ordinarie regole probatorie. In particolare, occorre verificare le forme esteriori della condotta: alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso, alla gravità della violenza ed all’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia potranno, pertanto, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione.

Sul punto, un orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che integra sempre gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. ‘metodo mafioso’ (già D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. L. n. 203 del 1991, ora art. 416-bis.1 c.p.), e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia. Tale orientamento non è, però, condiviso dalle Sezioni Unite, poiché la formulazione dell’art. 416-bis.1 c.p. non consente di affermare che la circostanza aggravante in oggetto sia assolutamente incompatibile con il reato di cui all’art. 393 c.p.; residua al più la possibilità di valorizzare l’impiego del c.d. ‘metodo mafioso’, unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione.