La Corte di Cassazione, Sezione V, con la sentenza n° 2714 del 23 gennaio 2020, si è pronunciata in materia di attribuzione soggettiva del reato di bancarotta fraudolenta, con specifico riferimento all’attribuzione all’imputato della qualifica di amministratore di fatto.

I Giudici della Corte affermano che la ricostruzione del profilo di amministratore di fatto deve condursi, in ambito penalistico, alla stregua di specifici indicatori, individuati non soltanto rapportandosi alle qualifiche formali rivestite in ambito societario ovvero alla mera rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta, bensì sulla base delle concrete attività dispiegate in riferimento alla società in questione, riconducibili ad indici sintomatici quali: la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l’intervento nella declinazione delle strategie d’impresa e nelle fasi nevralgiche dell’ente economico.

Il relativo apprezzamento non può, pertanto, ritenersi limitato alla fisionomia delineata dal codice civile (art. 2639 c.c.), che ne declina lo status nella dimensione fisiologica dell’attività d’impresa, ma va riguardato nel più ampio contesto delle ingerenze e degli interessi antigiuridici che ne arricchiscono il ruolo.

In tal senso, la giurisprudenza civile richiede unicamente lo svolgimento di un’apprezzabile attività di gestione in termini non occasionali o episodici, mentre, in sede penale, rileva piuttosto la funzione di regia e di strategica gestione dell’ente, in violazione del complesso dei doveri posti a presidio dell’interesse dei creditori, dei terzi e del mercato.

Concludono i Giudici della Corte che l’effettiva gestione da parte dell’amministratore formale e l’esercizio di attribuzioni anche d’ordine da parte dell’amministratore de facto non escludono la concorrente responsabilità di quest’ultimo con il primo, ove sia comprovata una gestione paritetica.