La Sezione III della Corte di Cassazione, con la sentenza del 18 febbraio 2019, n.7243, è stata chiamata a pronunciarsi in merito al valore da attribuire alle presunzioni legali previste dal diritto tributario ai fini della prova dei reati fiscali previsti dal D.Lgs. 74/2000.

Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, in quanto assumono esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale, unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. Questo il principio di diritto sancito dai Giudici della Corte.

Tali presunzioni possono solamente essere poste a fondamento di elementi indiziari atti a giustificare l’adozione di misure cautelari reali a carico del soggetto interessato, ma non costituiscono, da sole, prove della sussistenza dei reati tributari.

Nel caso in esame, l’imputato, titolare d’azienda, era imputato per violazione degli artt. 2 e 4 del D.Lgs. 74/2000.

La Suprema Corte, accogliendo uno dei motivi di ricorso, cassava la sentenza di condanna della Corte d’Appello, censurando l’operazione ermeneutica con la quale i giudici del merito avevano considerato presuntivamente riferibili a ricavi, non dichiarati, i prelievi di cassa effettuati dall’imputato.

Tale deduzione, tuttavia, si basa su una presunzione che, nella sua assolutezza risulta tipicamente riconducibile al solo diritto tributario e non può trovare applicazione nell’accertamento penale dei reati.