La Corte di Cassazione, Sezione II, con la sentenza n° 15020 del 5 aprile 2019, si è pronunciata in tema di distinzione tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) e quello di estorsione.

Secondo i Giudici della Corte i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono in relazione all’elemento psicologico. Nel primo reato, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto eventualmente infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria. Tale pretesa, arbitrariamente attuata dall’agente, deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato.

Nel reato di estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.

Quanto all’elemento materiale dei due reati, la Suprema Corte precisa che, ai fini della distinzione tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) e quello di estorsione, l’elevata intensità o gravità della violenza o della minaccia di per sé non legittima la qualificazione del fatto ex art. 629 c.p.

Alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, tuttavia, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione, ma non costituisce elemento decisivo ai fini della distinzione tra i due reati. Ciò è confermato, proseguono i Giudici, della circostanza che anche l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può risultare – come l’estorsione – aggravato dall’uso di armi, costituendo, a ben vedere, un ipotesi di intensa condotta violenta o minacciosa.

Nel caso di specie, l’imputato veniva condannato in I e II grado per la sua condotta, pur connotata da violenza e minacce, posta in essere unicamente per ottenere la consegna della sua pensione d’invalidità, e quindi nella ragionevole convinzione di esercitare un suo diritto, che avrebbe dovuto tutelare nelle corrette forme giudiziarie.